Ieri sono arrivato al villaggio di Ignatis del Tivano, l’ultimo sulla strada che porta al Passo dell’Aldilà. Il nome di questo rozzo passaggio nella catena delle Cime d’Argento mi aveva sempre incuriosito.
Il Passo dell’Aldilà. Oh, sapevo che questo posto era uno dei tanti sentieri per superare la Frontiera d’Argento. Un ponte tra le regioni ventose e le zone immote. Pochi chilometri da percorrere per passare da un mondo all’altro. Da buon esploratore progressista, provavo un certo fascino per la Frontiera. Ho quasi immaginato l’inversione di gravità tra un lato e l’altro della catena montuosa. Spinto da una curiosità divorante, ho preso la 59° fino alla stazione di Ignatis del Tivano. I carri sfrecciavano attraverso le valli come se nulla potesse fermare la loro folle corsa. Le rotaie si prendevano gioco del rilievo sempre più marcato. Si lanciavano nel vuoto su grandi archi di pietra, dandoci l’impressione di attraversare montagne e gole con una facilità sorprendente. Alla curva del binario, il treno ha lasciato il fianco della montagna e si è gettato nel vuoto di una valle, a malapena sostenuto dal suo acquedotto. Il mio cuore ha smesso di battere quando, nell’assoluto pallore della primavera, ci siamo affacciati sul Traverso, quell’incredibile fiume che attraversa intere regioni in un susseguirsi quasi ininterrotto di cascate e di chiuse. Che meraviglia! Nella luce dell’alba sembrava un lungo nastro di platino, ricamato qua e là dal vapore delle sue correnti. A più di 500 metri da terra, la vista dai carri era mozzafiato. potevo intuirne l’ansa a est, inondata dal sole, e in un solo balzo attraversare il corridoio per ammirarla scomparire nell’orizzonte tagliato delle montagne. Mi sentivo come un uccello, un dio, etere puro, in questa corsa sospesa sulla 59°.
La città di Ignatis del Tivano è in realtà un grande villaggio aggrappato al fianco della montagna come un albero nel granito. Le sue case si aprono tutte sulla valle del Traverso sottostante. L’aria è vivace, quasi pungente, e l’altitudine dà un sapore di resina all’ossigeno che si respira, lasciando l’impressione di star costantemente masticando aghi di abete rosso.
Ci sono rimasto solo una notte, avendo trovato una stanzetta onesta e a buon mercato in un piccolo “ostello del Traverso”, visto che ce ne sono tanti lungo il fiume. Lo consiglio per la cucina che offre. Sapendo che questa era forse l’ultima volta che avrei cenato in una regione ventosa, il loro stufato mi ha quasi fatto venire le lacrime agli occhi.
Ma questa mattina, svegliato prima dell’alba dall’oste, tutta la nostalgia mi aveva lasciato. Attraversare il passo! Superare il confine e saltare nell’ignoto! La mia attrezzatura da escursionista era un insulto alla leggerezza del mio cuore. Ho ingoiato l’aria acida di montagna come latte materno: voracemente e senza scrupoli.
La strada che porta al passo è ben tenuta, ma molto difficile da raggiungere senza un veicolo. Per fortuna un pastore mi ha preso sulla sua mongolfiera e così abbiamo attraversato la fitta pineta fino al sentiero che scende verso il passo. Regolando le cinghie, ho attivato la mia dattilosfera e sono partito per una giornata di cammino tra i resti di un ghiacciaio morto.
Questi antichi ghiacciai scomparsi sono affascinanti. La loro presenza spettrale tinge ancora tutto il paesaggio di blu, anche se i piedi trovano ormai solo lastre di ardesia rotte e scivolose. Il passo si trova tra due cime scoscese, scolpite dalla neve piuttosto che dal vento. Sapete che vi state avvicinando alla meta quando il bagliore della prima neve vi appare alla vista. Come se il ghiaccio rispettasse il confine, non va mai oltre la metà del passo e si accumula solo sul lato della zona immota. Si dice che la guerra che ha dilaniato questo luogo per anni abbia lasciato cicatrici tali che anche il clima ora rifiuta di attraversare il confine umano. Su entrambi i lati della montagna, il paesaggio si evolve in modo indipendente.
Le mie gambe stanche mi hanno portato in una valle selvaggia, dove l’aria profuma di erba bagnata e di erica. Gli abeti ventosi sono scomparsi e l’ardesia si è trasformata in una liscia pietra grigia che a volte produce piccoli cristalli bianchi.
La discesa è stata molto più veloce di quanto pensassi. Sulla via del ritorno, con la mente un po’ smarrita, vedevo che una sola nuvola si era avventurata sul picco d’argento, prigioniera della frontiera, eternamente sospesa tra due mondi. Forse, da bravo Tiracorde, avevo inconsciamente applicato la mia arte per rassicurarmi, tessendo mio malgrado una corda a quella nuvola per portarla con me nel mio viaggio. Ma la frontiera mi aveva negato quel compagno esitante.
Immerso in un’estasi irrequieta, ho mosso i primi passi sull’erba corta fino ad arrivare su un piccolo promontorio roccioso. Per un attimo mi sono fermato, notando che anche il vento era rimasto dietro di me. Solo la neve del passo rinfrescava il paesaggio, perfettamente saggio e selvaggio al di là del passo. Una sola poiana ha attraversato il cielo blu, quasi immobile su una corrente invisibile, con le ali appoggiate sul vuoto come se fosse solido. Allungando le braccia, anch’io stavo assaporando quella sensazione sconosciuta. Mi sono ricaduti i capelli sulla fronte e i vestiti mi sono rimasti attaccati alla pelle. Mi sono separato da loro lentamente, in modo cerimonioso. Fino a quando, alla fine, mi sono presentato quasi nudo alla distesa immobile e vergine. La sensazione di spazio, travolgente, mi ha gonfiato il cuore. Anche al momento di questa relazione, l’emozione mi brucia ancora le mie tempie.
Non so da che parte andare ora, ma l’orizzonte mi attrae con nuova forza. Obbedire alla sua chiamata sta diventando un bisogno imperioso, nonostante le mie gambe, che non sono abituate a usare le proprie forze. Devo raggiungere quel punto di fuga che sembra tirarmi verso di sé. Fino ad ora, ho piegato le nuvole galoppanti al mio dominio. Sono ancora un Tiracorde in questa pacifica distesa? Quali legacci posso tessere senza il vento a portare i miei ganci?
Non sono forse diventato piuttosto la preda volenterosa di questo orizzonte immoto?